In Diario

Fangirl, nerd, donna, essere umano.

Sono una fangirl, sono una nerd, sono una donna e sono un essere umano prima di tutto.
Non ho bisogno di più donne in uno show per ricordarmi che esistono le mie simili.
Non ho bisogno di mille repliche di Wonder Woman per ricordarmi che le donne sono forti, come se avere una debolezza sia segno di vergogna.
Non ho bisogno di quote in rosa, di vestiti appropriati, di un’etichetta femminile per rendermi un’essere umano da rispettare.
La violenza non è solo calci e pugni. Per il 25 novembre la tv manda in onda spot di atleti che dicono di non picchiare le donne, ma trovo tutto questo sia solo paternalismo imbarazzante, offensivo, diseducativo.
L’educazione manca, un’educazione che non sia scolastica, che sia nella crescita, nel mondo, subliminale e data per scontata.
Eppure, lì fuori, c’è sessismo, tossico per uomini e donne, perché discrimina gli esseri umani dicendo in modo più o meno subliminale che c’è un posto a cui un tipo di umano appartiene e l’altro no, deve starne lontano, è imbarazzante, è tabù, non deve mischiarsi o il vaso di Pandora si aprirà e sarà l’apocalisse, la vergogna, quel male chiamato gender. Infetto, potrà cambiare le persone, deviare figli, dare risposte sbagliate a figlie che un giorno se l’andranno proprio a cercare con certi comportamenti.
Sentire queste parole sempre, come formule, ripetute, scritte, riscritte in lingua d’analfabeta funzionale, è il problema.
Queste parole non dovrebbero esistere, non dovrebbero essere pronunciate, dovrebbe esser dato per assodato che siamo esseri umani che non devono chiedere diritto di parola, a cui non si deve sindacare un diritto di rappresentazione. Invece è necessario, va ripetuto, va fatto affinché il mondo cambi e bisogna utilizzare anche quella brutta parola – femminismo – perché il mondo non è di persone uguali, ma è in lotta, forse lo sarà sempre, e per questo dobbiamo combattere sotto uno stendardo con una parola fraintendibile. Anche se la cambiassero però ci sarebbe critica, perché sono le intenzioni che non piacciono, è la cultura che non vuole essere integrante ma separazionista o piena di buone intenzioni, nessuna via di mezzo: o dai un prodotto esclusivo, o crei un collage di diversità secondo la ricetta delle buone intenzioni. Questo non è normalizzare, è solo un altro modo per far apparire qualcosa come “strano” e “fuori posto”. Ma siamo umani, siamo nel nostro posto, quello della vita: una vita di fragilità, di errori, di sentimenti, di cose buone e cose non buone, ma che vanno rispettati in quanto vita.

La violenza è qualcosa di più raffinato, è solo una punta di un iceberg.
La violenza è quando qualcuno vuole determinare che esistono un maschile e femminile, e vanno separati, non devono contaminarsi.
La violenza è quando dici che esistono oggetti, colori, sentimenti che appartengono a un maschile e a un femminile.
La violenza è feticizzare il genere opposto, quello considerato più debole.
La violenza è credere esista una sensualità prorompente in un genere, qualcosa che a prescindere dall’età è un invito.
La violenza è ridicolizzare chi fa qualcosa che non è del suo genere.
La violenza è il categorizzare che non possono che esserci due generi, che una terza voce è sintomo di malattia.
La violenza è nel dire di far silenzio e lasciar parlare l’altro genere, più interessante.
La violenza è nei piccoli gesti di una normalità docile, sottomessa, ingabbiata da quella che viene tramandata come educazione.
La violenza è il romanticizzare certe parole, certi gesti, legittimare in dolcezza la possessività.
La violenza, infine, è nella sua forma ultima qualcosa che si è affilato e ha imparato a lasciare lividi e tracce di sangue.
Non si crea un mondo sano invitando a proteggere le donne, chiedendo loro di non esporsi perché il mondo è un posto brutto e malato, la natura di un essere vivente non può deviare per conformarsi a una prigione, cambiare la propria sanità per non essere toccate dal mondo malato.

L’altro giorno leggevo di una lamentela del maestro Hayao Miyazaki, uomo di vecchio stampo, di un’educazione superata, con tutti gli spigoli appuntiti di una senilità burbera. Diceva che odia il modo in cui recitano certe seiyū, che non capiscono che agli uomini non piace quel modo di parlare, che non sono attraenti. C’è molto di cui giustificarlo, eppure niente, che io faccia giustifiche è di per sé sbagliato ma è un ingranaggio inevitabile, che viene da lontano, che mi vien voglia di strappare perché istintivamente non c’è nulla da contestualizzare; istintivamente provo disgusto, perché non è più una sola questione di corpo, anche di voce, una voce che viene richiesta da registi (uomini, per lo più) ma di cui incolpare le donne. Parliamo dello stesso Miyazaki che ha animato personaggi femminili iconici, eroine semplici e grandiose che hanno lottato con il femminismo e che non voglio far cadere nell’ombra di una gaffe. Forse è proprio questo anzi che evidenzia com’è la malattia di un’educazione tossica, asintomatica finché qualcosa non scatta e non per raptus, ma perché dà voce a qualcosa che subliminale dorme in noi, indistintamente.
La violenza è un campo avvelenato, si possono mettere radici, si può crescere, possono fiorire bei fiori, si possono cogliere bei frutti, ma prima o poi il veleno toccherà qualcuno.

Ricordo che la persona che mi ha introdotto al mondo nerd, quand’ero bambina, era un bambino di qualche anno più grande. Amava Dragonball e Magic Knight Rayearth, i suoi eroi erano Goku e Hikaru, allo stesso modo.
Ricordo che dei parenti mi dicevano, con tono cospiratorio e drammatico,“a lui piacciono le bambole”. Non capivo quale fosse il problema, ero ingenua, ma ricordai questa cosa e la sfruttai per chiedergli: “gioca con me e le Barbie”. Ero felice, lui lo era, le nostre bambole erano felicemente fidanzate e in una relazione aperta, non con Ken – non lo avevo, non mi piaceva – ma con il Power Ranger Rosso! E proprio quel bambino fu il primo, tra tanti adulti, a insegnarmi che non c’era un posto a parte per me: mi regalò il suo Super Nintendo perché potessi conoscere anche io i videogiochi, mi invitò a vedere Dragon Ball perché non era una cosa da maschi, mi incoraggiò a giocare al PC perché non c’era nulla di male se toccavo la tastiera, giocare insieme era più bello.
Qualcuno malizioso penserà che c’era un interesse di fondo, ma non era così, aveva amici e grazie anche anche al mio aiuto riuscì a conquistare la ragazzina che gli piaceva proprio come i protagonisti degli shōnen manga.
Le prime dosi di femminismo le ho avute da quel bambino, le altre da una suora (ho accennato la cosa qui). Sì, il mondo è strano, ma non sempre in modo perverso. Grazie a lui, pian piano, ho trovato posto nel mondo nerd, perché era il mio posto e lo sarebbe sempre stato, anche se nuove generazioni maschili rivendicano spazi e rappresentanza come fossimo ospiti, nonostante io, come tante, c’eravamo da prima per una semplice realtà anagrafica.

Grazie a questo posto, oggi so che non ci sono cose per maschi e per femmine, è stato il primo muro che ho abbattuto, un muro che era intorno a me inconsapevolmente. Certi desideri erano sbagliati secondo quel muro, anche nei giochi: mi piacevano i cowboy, gli indiani e le piste da corsa, fingevo non fosse così, non sapendo che i miei genitori mi avrebbero regalato una Barbie e un’auto, se solo avessi chiesto. Reprimevo questa cosa, al punto che rubavo i giocattoli “maschili” dall’asilo o quando andavo a casa dei bambini maschi. Mi vergognavo di questa cosa, ma sentivo il bisogno di tenerla segreta. Poi trovai il coraggio di pretendere, quando mio padre aveva comprato come regalo per mio cugino una action figure di Wrath-Amon con armatura e cavallo. La serie animata di Conan the Adventurer non era negli interessi del mio parente, ma era qualcosa di cui io ero abbastanza fanatica ed amavo il villain, lo volevo, lottai quindi perché quel regalo di Natale – che stava in casa, a tentarmi – diventasse il mio; pensavo a quanto sprecato fosse per mio cugino e quanto perfetto era per me. Alla fine i miei genitori cedettero e ricordo ancora la mia gioia nel ricevere il cavallo di Barbie con la stalla, insieme a un destriero oscuro. Non ho più rubato giocattoli ai bambini, non ero fuori posto, non era illecito quello che provavo, nessuno me lo aveva imposto ma io credevo fosse un desiderio sbagliato, perché il mondo lo diceva tra pubblicità e reparti separati, colori diversi, suoni diversi.
Il primo muro però era crollato, si era rivelato fragile di fronte alla passione di una piccola nerd in erba. Non c’erano logiche o giustificazioni di fronte la passione, nulla di nascosto, emblematico, equivoco. Magari un gioco può essere un segnale di appartenenza a una certa identità, ma a volte un gioco è solo un gioco, eppure è da quelli che iniziano costrutti complessi e che separano, scontrano, legittimano.

Auguro un domani di bambini che insegnano alle bambine che non devono stare al loro posto.
Auguro un domani in cui le bambine difendano i bambini.
Auguro un domani dove bambini di generi diversi sappiano piangere insieme delle proprie debolezze.
Auguro non l’impossibile, ma la possibilità di un’educazione diversa, che ricordi che prima di tutto siamo esseri umani.
Io sono una fangirl, sono una nerd, sono una donna e sono un essere umano. Non credo nelle utopie, non credo nelle quote rosa e negli eserciti di personaggi femminili forti; credo nelle cose banali come i giocattoli, credo che il 25 novembre dovrebbe ricordare una cosa banale: l’educazione al rispetto.