In Challenge/ Diario

#30DaysOfMe – Giorno 2: Looney Tunes

Challenge: 30 giorni, 30 opere che mi definiscono
Credits by @Erikaruna

Gli anime hanno sempre fatto parte della mia vita, tanto da essere tra i miei primi ricordi.
Avevo però una grande collezione di VHS dei classici Disney e film d’animazione di altre produzioni (come i capolavori di Don Bluth), opere che guardavo e rivedevo con grande emozione. I miei genitori pur circondandomi di un’immensa collezione di prodotti animati, non guardavano mai con me quei film e quelle serie, non avevano interesse e apprezzamento per l’animazione eccezione fatta per i Looney Tunes. Amavano profondamente le star animate della Warner Bros, guardarli ogni sera era d’obbligo, lo facevano più per se stessi che per me, divertiti dalla slapstick comedy che ricordava loro i film di Stan Laurel e Oliver Hardy (Stanlio e Ollio in Italia) e simpatizzanti di personaggi come Wile E. Coyote, Road Runner e – in misura minore – Sylvester e Tweety.
I Looney Tunes un po’ come Sailor Moon sono stati una presenza a lungo stabile per me tra gli anni dell’asilo e i primi anni delle elementari, inoltre con l’uscita di Space Jam nel 1996 un rinnovato entusiasmo mediatico verso quest’universo portò i Looney Tunes ad avere una presenza molto più incisiva tra tv e gadget. La cultura pop degli anni Novanta ha dato ai Looney Tunes generoso spazio e iconica importanza, favorendo il loro canto del cigno prima della morte degli ultimi grandi autori e papà dei Looney: Friz Freleng (26 maggio 1995) e Chuck Jones (22 febbraio 2002).
Nonostante i corti dei Looney Tunes si erano conclusi alla fine degli anni Sessanta, la televisione, la pubblicità e opere siderali hanno portato questo mondo animato fuori dalla nicchia del cinema, diventando un prodotto ampiamente diffuso, di grande risonanza mediatica. Il loro avvento in TV li addomesticò e li ricoprì di politicamente corretto: i corti furono censurati al punto da diventare – ancora oggi – l’opera più censurata della storia della TV, per questo il successo con il mondo dell’infanzia ha dato loro nuova vita (ma sempre sotto lo sguardo dei loro papà).
#30daysofmeQuelle versioni censurate sono arrivate a noi, adattate alla comprensione di un pubblico italiano, spogliati della loro natura e cultura di riferimento, ma funzionavano e per una bambina che non conosceva ancora il mondo erano un intrattenimento facile, divertente, ma che mi educò alla diversità. I riferimenti LGBT+ non erano molto sottili ma generosi; forse furono proprio loro a far nascere la fangirl che era in me, fatto sta che la rappresentazione di una sessualità fluida, di ruoli di genere flessibili, di baci e matrimoni tra esseri dello stesso sesso e di specie diverse, normalizzò per me la visione di una realtà aperta, inclusiva e priva di rigidità. D’altronde dinamiche come quelle tra Bugs Bunny e Daffy Duck le vedevo in programmi televisivi con coppie etero sposate, vedevo quelle dinamiche tra i miei genitori, tra i miei nonni, per cui ero convinta che Bugs e Daffy fossero sposati, come che ci fosse un interesse diverso nelle ossessioni predatrici di Wile e Sylvester.
La mia visione del mondo dei Looney Tunes era molto distorta, ma avevo colto degli elementi chiave che sono stati caratterizzanti nella natura dello show. Solo diventata adulta, con una cultura sia cinematografica che politica, affascinata e ossessionata da South Park, ho scoperto che non avrei mai avuto lo show creato da Trey Parker e Matt Stone, se non fossero esistiti i Looney Tunes.
Una conversazione banale, una riflessione sullo shipping, South Park nel cuore e la frequentazione di un corso di laurea in storia, mi hanno spinta a ricercare i Looney Tunes realizzando in seguito la grandezza di questo show e quanto fuori dagli Stati Uniti non era stato compreso. Questi corti animati sono infatti la prima opera di satira cinematografica che ha analizzato, criticato e parodizzato il mondo di Hollywood, la società americana e gli eventi storici. Sono un diario critico e riflessivo di tutto il Novecento che hanno visto la nascita dello star system, l’ascesa e la caduta dei regimi totalitari, le lotte contro il razzismo, la durezza del proibizionismo, quanto le lotte femministe; hanno analizzato la psicanalisi freudiana, abbracciato il folklore europeo e creato stereotipi per schiaffeggiarli. I Looney Tunes sono simboli, metafore, sono la favola esopica del nostro Novecento che ha parlato di vizi e virtù degli uomini, prendendo a calci le contraddizioni e il moralismo occidentale. E il personaggio iconico di casa Warner – Bugs Bunny – è un trickster di natura ambigua e fluida che combatte contro una mascolonità tossica e una mentalità conservatrice, trasformando in valore positivo la furbizia e il fascino femminile, quanto risultando sempre vincente pur essendo – per natura – debole.
Riscoprire tutti quei corti, leggere le storie dietro ogni personaggio, collezionare ogni materiale video firmato Looney Tunes e/o Merrie Melodies, abbracciare nuovi show con gli stessi personaggi, mi ha aperto ad un mondo straordinario, rinnovando e amplificando il mio amore per il mondo del cinema e dell’animazione.
Per la me stessa bambina i Looney Tunes erano slapstick comedy, scenari fantastici e violenza gratuita (ma divertente), ma oltre quello c’era storicità, c’erano alcol e droghe, sesso e cultura, ma non solo. Senza sentimentalismi i Looney Tunes sono stati una dichiarazione d’amore all’umanità tutta, imperfetta, debole, stereotipata, diversa, colorata, incapace di comprendere se stessa, ma – a suo modo – amabile.